Artist: Agalloch
Title: “Faustian Echoes”
Label: Dämmerung Arts
Year: 2012
Genre: Atmospheric/Folk Black Metal
Country: U.S.A.
Tracklist:
1. “Faustian Echoes”
Immagini fumose e atmosfere da piccolo schermo supportate dall’organicità e dinamicità di suoni degni del più grande: ci sono distinti casi in cui diventa evidente come i tesori della letteratura piegata all’arte cinematografica siano il connubio d’arte più ispirante nonché cardine estetico-visivo per la stessa musica – più della stessa musica. Casi e singolari emanazioni in cui la grana della pellicola diventa il riferimento primo, puro, il medium più affezionato e immediatamente eloquente, parlante semplice e metaforico nella sua enorme complessità, da impiegare quale punto di partenza per descrivere un suono; un’immagine, dal canto suo, il punto di partenza nell’idea che sta dietro una successione di note come a voler fare di quest’ultima il suo simbolo privilegiato eppure, anche e volendolo, indipendente da essa.
Che gli Agalloch siano stati fin dal principio una band estremamente visiva, che ragiona sulla sua musica in termini d’immagini e sensazioni più che stile od obiettivo poetico prefissato, è cosa ad oggi probabilmente riconosciuta se non quasi dichiarata. Che infatti, nel caso della celebre congrega di Portland, layout e disegno figurato legati ad una certa atmosfera o fotografia da ricreare siano il punto di partenza per le note prostrate nella grande tela al fine di rappresentarli al meglio delle infinite potenzialità è, nel 2012, a due anni di abitudine alle ambizioni dell’impegnativo e nondimeno grandioso “Marrow Of The Spirit”, quasi una mera ovvietà.
Ma “Faustian Echoes”, sotto questa precisa e come si conviene fioca luce, batte in una decade dalla sua pubblicazione ogni altra uscita degli Agalloch. L’EP nero di quelli che per quindici anni sono stati e si sono evoluti quali i paladini nordamericani di un certo ed inconfondibile modo di intendere la materia musicale ad ampio spettro è quello in cui la più grande influenza visiva e di riflessione dei quattro prende le redini insieme al linguaggio più ufficioso del Black Metal novantiano espresso tramite altri venti anni di esplorazioni in e fuori dal seno del gruppo; una mise en scene, se si vuole, con l’attenzione concentrata su due sezioni che si inseguono e riconorrono nel blocco unico dei ventidue minuti scarsi che resta il brano, la pièce più lunga ufficialmente mai composta dal nucleo di John Haughm, Don Anderson e Jason Walton, anche qui completati dall’eccellente lavorìo ritmico di Aesop Dekker, già spina dorsale mutevole del precedente capitolo su full-length. Ed esattamente come in una mise en scene teatrale o cinematografica che sia, nella sua ideazione e scansione – esattamente come i membri del gruppo erano soliti entrare sul palco, ogni dissezionato elemento fa il suo ingresso sull’elaborato palcoscenico sonoro poco per volta: di soppiatto, senza che inizialmente sia realmente possibile rendersene conto, facendo l’insieme da povero e scarno a sempre più grande ed armonico nella sua ossimorica, profonda disarmonia ed inquietudine faustiana.
Tutto ha inizio in un piccolo bar in Germania, ovviamente, tra le nebbie umide e fredde di Francoforte, guardandosi idealmente indietro. Più prosaicamente, osservando il passare del tempo fuori dalle vetrate di un aeroporto in attesa di una coincidenza che riportasse dall’altra parte del globo. Tutto ha inizio facendo leva sul più profondo tradizionalismo (in musica come in letteratura, quanto in estetica) – quello degli anni ‘90, specchio però di un’esplorazione che è ottocentesca. Visione di una tragedia che è tuttavia molto più antica di quella di Goethe; di una dannazione che è infinitamente più arcaica. Dall’infusione dell’occultismo Master’s Hammer, nel misterico della pellicola connazionale del “Lekce Faust” ad opera di Jan Švankmajer, dalla vicinanza di Steven Wray Lodbell nei remix del 2010 – da questa comune nebbia filosofica, da quegli incensi inalati con una birra tra le mani riflettendo sulla combinazione spontanea di Black Metal e classic literature about selling one’s soul to the Devil for knowledge, ha dunque inizio un piccolo enorme dramma umano che permette all’ascoltatore di entrare per venti minuti abbondanti in un altro mondo, in un dialogo universale con lo spiritus mephistopheles lontano dalla percezione del circostante.
Nondimeno, i semi di queste due sezioni di un’opera teatrale unica intessuta con una perizia che ha del sopraffino in musica a sua volta vicina e lontana da qualunque schema sono piantati ancor prima: la prima parte degli anni tra il 2009 ed il 2012 è del resto quella in cui gli Agalloch compongono, innanzitutto, gran misura di un album come “Marrow Of The Spirit” – in particolare, le profondità abissali della “Black Lake Niðstång” che è diretto precedente delle intuizioni di sviluppo poi riversate in “Faustian Echoes”. Per molti versi, i ventidue minuti dello stesso gioiellino nero per antonomasia di Haughm e compagine portano avanti quella stessa tendenza di scrittura (cristallina, seppure nella sua caligine anche in “Into the Painted Grey”) sublimandola all’eccesso in direzione ed estremismo; lo stesso fanatismo lucido anche lirico, di una rotta più cupa e desolata in grado di tracciare una linea congiungente il finale straziante di “Ashes Against The Grain” (vale a dirsi la tripletta di atti nella “Our Fortress Is Burning”) con tutto ciò che avverrà fino alla pubblicazione di quello che resterà per altri dieci anni -e fino ad oggi- l’ultimo mini-album mai pubblicato dal gruppo.
La medesima linea rossa che collega tutto ciò -in maniera anche ironica se vogliamo- è quella che a sua volta separa in due fasi la produzione complessiva della band: un prima e un dopo in un’evoluzione altrimenti costante, la quale seziona in due parti equidistanti ed impari lo stesso terzo, per più di un verso cruciale full-length del gruppo. A partire dalla loro scelta di produttori in due maestri dell’analogico quali il chitarrista dei Faust prima (un nome, una direzione) e poi in Billy Anderson (al lavoro con le pesantezze degli Sleep e dei Neurosis, e con le atmosfere dei Blood Ceremony e dei Primordial di “The Gathering Wilderness” in circa sedici anni di lasso temporale) che li porterà tramite le levette della sua consolle sulla strada di “The Serpent & The Sphere” nel 2014, sia “Marrow Of The Spirit” che “Faustian Echoes” condividono lo stesso guanto di sfida al suono della band nel precedente ed acclamato terzo album. Tutte le produzioni del gruppo, dal 2010 in avanti, puntano infatti e non per coincidenza molto più alla rottura con la prima fase compositiva e verso nuovi itinerari cartografici fatti di un’analogica, spoglia, ruvida realtà riempita piuttosto dal valore ricco delle ricercate armonie e dialoghi melodici, delle scelte lessicali insite nella composizione fatta di organicità e dinamiche ancora più vaste, desolate, ampie, confrontative, proprie di scrittori di musica così esistenziale, intima e profonda, in bilico tra vita, morte e tutto ciò che vi sta in mezzo ma perennemente toccato da entrambe.
E così la traduzione inglese dell’opera più mefistofelica del titano della letteratura tedesca ed europea, naturalmente così vicina sia per natura che immagini e forma ai testi del compositore trentacinquenne dell’Oregon, ma anche i dialoghi campionati dall’adattamento di Švankmajer e i soundscape più tipici della scrittura agallochiana, per così dirla, diventano una cosa sola sotto allo stendardo della ricerca inquieta e diabolica dell’uomo: di conoscenza, di risposte inarrivabili, d’immortalità fino a che l’irraggiungibile non sia finalmente raggiunto e còlto da una mano fattasi erculea nella spinta verso l’eternità. Ma in quella che sembra effettivamente una tensione verso l’infinito anche musicale, proprio in un tale allargamento dei criteri di timing, si nasconde in verità qualcosa di molto più familiare: le premesse due sezioni non così distanti dai collaudati stratagemmi del gruppo nella sua usuale deformata-canzone sulla decina di minuti complessivi. Struttura coesa in temi e variazioni libere, accenti e parti che appaiono e riemergono dall’abisso come visioni, collassi totali delle sezioni ritmiche dalle cui rovine sbucano una sola chitarra solista pulita o acustica presto raggiunta da altre linee in scambi e colloqui dolorosi; l’ampio utilizzo di colori tra elettrico ed acustico anche in una visione solennemente monocromatica, apportata a piramide rovesciata da tre musicisti ora sfruttanti forze e gusto del miglior percussionista mai avuto dal gruppo.
Ciononostante, è altrettanto vero che “Faustian Echoes” rimane per molti altri e non trascurabili versi anche un capitolo unico ed una prima volta irripetuta nel catalogo degli Agalloch. Per la primissima volta la musica, nella sua più grande ambizione, viene scritta a tre mani in sala prove, organicamente, sviluppata in arrangiamenti superlativi dai tre membri storici come una visione collettiva (benché la miccia sia sempre accesa dal solito ed indiscutibile visionario del collettivo); per la prima ed ultima volta è eccettuata la dichiarata tendenza degli Agalloch alla mera sperimentazione nel formato minore dell’EP e del mini-album quali parentesi compositive, pretesti preventivati in cui provare alternative esperienze, anche stilistiche, da relegarvi o al più integrare maggiormente dosate all’interno di un disco completo che rinchiudesse invece in sé anche tutto il resto del bagaglio costantemente in evoluzione della band: “Faustian Echoes”, nel suo singolo ed immenso, strisciante e viperino brano, resta senza dubbio l’episodio maggiormente Black Metal mai provato dalla band, eppure, in questo stesso senso, è anche molto di più. È un’eccezione illustre ed irripetibile nella storia della band del Pacific Northwest. Se il primo “Of Stone, Wind, And Pillor” aveva sperimentato praticamente il solo lato acustico del gruppo, quello Neo-Folk dei Sol Invictus e delle future mascherate Death In June, della paganità runica degli Of The Wand And The Moon di “Nighttime Nightrhymes” virata all’apocalittico di “The Wicker Man” -e così in chiave più naturalistica “The White”-, oppure “The Grey” il rumorismo fattosi sempre più importante nell’economia sonora dei lavori tra il 2006 ed il 2010, “Faustian Echoes” è invece nella sua maturazione di aggressione (le accelerazioni centrali, travolgenti come non mai, non possono non ricordare quelle dei coevi e vicini Wolves In The Throne Room nel “Celestial Lineage” dell’anno precedente), di malizia e spiritata atmosfera illuminata dal bagliore di candele o da quello lunare attraverso una vetrata impolverata e rigata dalla pioggia (trasferitasi anche nelle chitarre acustiche che risuonano sibilline e antiche più che mai), per molti versi una esplorazione molto meno parallela; se non una vera sintesi di carriera nella sua investigazione estrema di caratteri mai totalmente nuovi, un capitolo quantomeno minormente distaccato dal canone maggiore delle produzioni del gruppo, qui tutto piegato ad una nuova visione che anticipa e forse accende involontariamente pure la prossima fissazione del genere tutto alle tematiche occulte e misteriche fatte di sigilli sconsideratamente rubati senza vergogna, fino al 2012 invece custodita tra le esperte mani dei più grandi esegeti nell’alveo Orthodox sospeso tra Francia, Svezia ed Austria – sdoganandole come veri vascelli e apripista a loro modo, vale a dire con la fama e la ricezione della band, nel bene e nel male, anche ai piani più alti del genere.
Ma è impossibile non denotare come le intenzioni del quartetto di Portland siano al contrario sempre state tra le più sincere, in candida fede ed artistiche possibili. E se davvero l’arte e la filosofia sono insieme il modo che l’essere umano ha di confrontare la sua limitata natura con le domande più difficili ed esistenziali che può porsi, con la morte e con la fine, allora è vero che gli Agalloch per quasi venti anni di attività hanno composto arte estremamente impegnata, crepuscolare e audace nella sua riflessione costante, così come dovrebbe probabilmente sempre essere; arte vera, largamente fraintesa ed incompresa dagli stessi sedicenti ammiratori nella sua ben più grande profondità, intrisa di immensa filosofia e nulla di meno. “Faustian Echoes”, nella sempre infame condizione subalterna di produzione minore per natura, ne è con ogni ironica probabilità la riprova più esplicita; l’urlo più straziante, dovuto e volontario di un gruppo influenzato da qualcosa d’infinitamente più enorme ed irraggiungibile della grandezza della natura o dei suoi paesaggi. I grand panorama a cui hanno guardato con varie metafore gli Agalloch per oltre quindici anni stavano e stanno ancora oggi dentro, in un mondo degli spiriti e dello spirito, non fuori: sono fatti di emozioni e pensieri, di riflessioni finissime, osservazioni tramite la natura e non alla -o per la- natura; di per sé, questa, nient’altro che una eccellente (lo si concede, invero) tela vuota su cui disporre e dipingere austere meditazioni in coerenza e libertà, disposizioni d’animo ed ispirazioni fugaci per sempre impresse in reti di espressioni musicali. Una band esistenziale di moderni, novelli Johannes Faust che, in assenza di risposte, hanno sempre cercato altre domande che potessero dare un senso al tutto o svelarne la più assoluta e dolorosa mancanza.
Mephistopheles: “The governing force? The reason? Some things cannot be known; they are beyond your reach even when shown.”
Faust: “Why should that be so?”
Mephistopheles: “They lie outside the boundaries that words can address; and man can only grasp those thoughts which language can express.”
Faust: “What? Do you mean that words are greater yet than man?”
Mephistopheles: “Indeed they are.”
Faust: “Then what of longing? Affection, pain or grief? I can’t describe these, yet I know they are in my breast. What are they?”
Mephistopheles: “Without substance, as mist is.”
Faust: “In that case man is only air as well!”
– Matteo “Theo” Damiani –